Lo sport: quella volta che...
Grande protagonista della storia, una tra le attività sociali in grado di generare il più alto tasso di aggregazione, un fenomeno che ha cambiato spesso il corso degli eventi e li ha anticipati
di Claudia Rivizzigno
Donne e uomini di sport, ma soprattutto persone, le cui storie ci appassionano, ci fanno emozionare e di cui viviamo vittorie o sconfitte come fossero nostre. Merito della capacità di immedesimazione e dell’empatia che gli atleti sono in grado di generare: non tutti riusciamo a correre una maratona ma tutti possiamo immaginare quanta e quale fatica sia necessario fare per riuscirvi. Fin dai tempi delle prime Olimpiadi nell'antica Grecia, la pratica sportiva divenne un’attività di forte interesse per quanti desiderassero avere un impatto sull'opinione collettiva. Per non parlare del rapporto tra sport e politica: nel Novecento, importanti manifestazioni si trasformarono in terreni di scontro in cui a confrontarsi non vi erano solo gli atleti, ma vere e proprie ideologie. Persino Hitler se ne servì nel ‘36, quando incoraggiò l’organizzazione delle Olimpiadi di Berlino come espressione delle superiorità ariana. I risultati però andarono ben oltre le sue previsioni: a far scalpore infatti furono le medaglie d’oro dell’atleta afroamericano Jesse Owens, che concorreva di fronte a una platea gremita di esponenti della razza pura. Ancora una volta, lo sport era premonitore di qualcosa che avremmo compreso solo molto dopo.
Nel contesto italiano il caso di Gino Bertali è uno fra i tanti che ha segnato un momento decisivo della storia contemporanea: la sua impresa leggendaria al Tour de France del ’48 contribuì ad allentare le tensioni politiche di quel periodo, a ricreare un senso di unione nel popolo e a sedare gli scontri nelle piazze. Lo stesso nobile obbiettivo si è prefigurata la squadra dimostrativa coreana di Taekwondo, quando nel 2018 si è esibita davanti al Papa e ha voluto salutarlo così: “La pace è più preziosa del trionfo”, questo lo striscione degli atleti del paese asiatico. L’incontro anticipava di poche ore il Gran Prix Roma: un evento sportivo ma anche diplomatico che ha fatto del Taekwondo un ambasciatore di pace nel mondo. Non era la prima volta che l’arte marziale coreana si spendeva in questi termini in un periodo storico così delicato: nelle olimpiadi invernali di qualche mese prima gli atleti della Corea del Sud e quelli della Corea del Nord si erano incontrati e stretti la mano, proponendo una chiara alternativa alle rivalità che da sempre interessano la nazione asiatica.
Il nostro bel Paese di certo non è immune alle tensioni sociali e in fatto di discriminazioni anche noi (purtroppo) ne sappiamo qualcosa: molti gli episodi legati alle tensioni razziali che negli anni hanno coinvolto il mondo dello sport, da campioni del calcio come Mario Balotelli, a giocatori di basket come Carlton Myers, portabandiera della nazionale azzurra alle olimpiadi di Sydney 2000. L’ultimo caso riguarda la partita tra il Psg e il Basaksehir: il quarto uomo è stato infatti accusato di aver dato del “negro” a Webo, assistente tecnico del club turco. Molte le pressioni dell’opinione pubblica e delle autorità affinchè l’Uefa intervenga e condanni duramente qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione. Se poi si vuole trattare lo sport come motore di cambiamento sociale, non si può prescindere dalla relazione tra sport e donna, considerandone però entrambe le facce della stessa medaglia. Così, mentre la bella storia di Sara Gama, capitana della nazionale italiana, compare su tutti i giornali perchè eletta vice presidente dell’Associazione Calciatori e mentre Stephanie Frappart arbitra Juventus-Dinamo Kiev in Champions League, l’inquadramento giuridico italiano resta immobile d’innanzi a questo inarrestabile divenire e non riconosce alle donne lo status di professioniste. Se per tutti queste sportive, così come le altre donne dalle grandi imprese sono considerate lavoratrici dello sport, per la legge italiana restano dilettanti. Loro che della passione ne hanno fatto un lavoro, e per questo come tale deve essere riconosciuto, non possono godere di tutte le tutele che sono proprie del professionismo. Quindi sì, va bene gioire perché finalmente l’Associazione Italiana Calciatori avrà tra i vertici una donna (e che donna!), va bene entusiasmarsi per la Frappart che arbitra una partita in Champions in un team tutto al maschile, ma saremo un Paese migliore solo quando una partita di calcio arbitrata da una donna non sarà più una notizia degna di nota e la Frappart non avrà bisogno di giustificarsi del suo mancato entusiasmo: “Io sono l’arbitro, cioè la figura che prende le decisioni. L’importante non è il sesso, ma che quelle decisioni sia giuste”. E come darle torto?
Speriamo che anche stavolta lo sport sia premonitore e che fra qualche anno potremo ricordarci di “Quella volta che… due donne, sulle copertine di tutti i giornali, hanno cambiato l’ordinamento giuridico”.
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